martedì 31 maggio 2016

C'ERA UNA VOLTA A VARESE


La Varese degli anni ’30 filmata in bianco e neroUn video che mostra la nostra città a inizio secolo. Ci sono tutti i luoghi più rilevanti del nostro capolugo.Il filmato parte con una carrellata dall’alto della città. L’obiettivo della videocamera si sposta poi sull’esterno della stazione Nord. Le riprese si spostano in corso, dove numerosi gentiluomini conversano seduti ad alcuni tavolini di un vecchio bar sotto i portici, dove oggi sorge la Libreria del Corso. Lungo il ciottolato del corso si notano i segni della tramvia. Nelle riprese non poteva di certo mancare Palazzo Estense con i suoi giardini che sono praticamente rimasti uguli. Poi, una scritta in inglese annuncia: «La più grande attrazione della Città Giardino è il Sacro Monte che è un vero tesoro di arte, religione e bellezza».Arriviamo poi al Sacro Monte con il suo  via vai di varesini e turisti che scendono e salgono dal tram. Dalla fine del 1800 a circa la metà del 1900 (l’ultima tratta venne soppressa il 31 agosto 1953) nel territorio della città di Varese erano presenti ben 10 tra linee tramviarie e funicolari che congiungevano la zona centrale a quelle più prettamente turistiche, come il Sacro Monte, il Campo dei Fiori, il Colle Campigli su cui era situato il Kursaal, un importante complesso turistico e sportivo, e ai paesi vicini. Il viseo termina con un viaggio nella storica tramvia che dalla Prima Cappella portava verso il Vellone,  alla stazione superiore del Campo dei Fiori con i suoi paesaggi unici e mozzafiato, per una sosta al ristorante della funicolare.

LA CASA PIU' INFESTATA D'ITALIA? SI TROVA IN PROVINCIA DI LECCO

Molti la conoscono come “la casa rossa”, per via del colore vermiglio che, un tempo, ricopriva l’intera facciata, ma è chiamata anche "casa delle streghe" , stiamo parlando di Villa De Vecchi si trova in Valsassina, a Bindo, frazione di Cortenova (Lecco). E’ una delle 7 case abbandonate più infestate dai fantasmi al mondo.
Si dice che in certe notti dalle sue mura risuoni la misteriosa melodia di un pianoforte.
Fu progettata dall’architetto Alessandro Sidoli su commissione del Conte Felice De Vecchi, patriota milanese rinascimentale, nonché capo della Guardia Nazionale dell’epoca, che partecipò alle Cinque Giornate di Milano e all’assedio di Gaeta nel 1861.
I lavori di costruzione cominciarono nel 1854 e terminarono nell’estate del 1856. Parte della villa fu costruita con una pietra del luogo, l’arenaria rossa, cui si deve uno dei suoi soprannomi: “La Casa Rossa”.
E rossi erano anche i pavimenti alla veneziana, e alcuni dettagli dei bellissimi affreschi che decoravano le pareti interne e i soffitti.
La villa era strutturata su cinque piani:
c’erano infatti i sotterranei, adibiti a cantine, cucine e lavanderie.
Al piano terra si trovavano invece le sale da pranzo e le stanze degli ospiti.
Al primo piano c’erano le stanze padronali.
Il secondo piano era usato per la servitù.
E all’ultimo piano, nel progetto originale, doveva essere posizionato un osservatorio astronomico, che però non fu mai costruito.
L’architettura di gusto arabo era evidente ovunque: negli archi del porticato, nel disegno delle finestre, nell’intonaco esterno a righe, ma soprattutto risaltava nella cupola, tipica delle costruzioni orientali religiose.
Tutt’intorno alla Villa fu creato poi un magnifico parco di 130 mila metri quadrati, con piante ed essenze provenienti da tutto il mondo e venne costruita anche un’enorme fontana antistante la casa.
Oggi viene considerata di grande interesse per via delle storie macabre che le aleggiano attorno, per la presenza di presunti fantasmi e per la storia triste vissuta dai suoi proprietari, i conti de Vecchi, che qui vissero vicende di morte e misteriose sparizioni.
Sidoli, l’architetto che la costruì, non riuscì a vedere completato il suo capolavoro, perché morì l’anno prima della sua inaugurazione.
Si racconta che tutto ebbe inizio verso la fine dell'800: una sera egli, rientrando a casa, si trovò di fronte ad una scena raccapricciante: la moglie era morta ed aveva il volto orrendamente sfigurato mentre la sua cara figliola era scomparsa.
A seguito di questo terribile evento il conte, in preda al dolore, si suicidò. Si dice che siano questi i fatti luttuosi riportati dalla cronaca di quei tempi.
La morte dei coniugi De Vecchi lasciò soli due figli ancora ragazzi che vennero affidati al fratello del Conte, Biagio, che ne ereditò anche la casa.
Biagio però vi dimorò per pochi anni e poi la villa passò ad un altro parente del Conte, Giuseppe.
Gli eredi De Vecchi trascorsero le estati nella villa fino agli inizi degli anni ’40 del Novecento e poi la lasciarono in stato d’abbandono per quasi vent’anni, quando fu venduta alla famiglia Medici di Marignano.
Da allora la casa è disabitata, caduta nel più completo abbandono.
Il destino della villa, però, non era solo quello di restare vuota, inabitata, ma era anche quello di essere sfiorata da incidenti che, nel corso del tempo, ne minarono la bellezza interiore, pur lasciando intatto tutto il suo splendore esteriore.
Già agli inizi del ‘900, poco dopo la sua costruzione, la villa subì dei crolli, perché il Conte De Vecchi oltre ai camini per riscaldare la casa, decise di far passare attraverso i muri dei tubi al cui interno scorreva acqua riscaldata. Questo accorgimento per mantenere più calda la dimora, però, finì col creare non pochi problemi perché a causa di perdite dalle tubazioni, vi fu il crollo dell’ultimo piano.
Si racconta che in certe notti il suono di un pianoforte proveniente dall’interno della villa riecheggi tutt’intorno alla casa, spandendosi per i boschi circostanti.
Solo suggestione? Forse, ma nella villa c’è davvero un vecchio pianoforte a coda, ormai, però, completamente distrutto dai vandali.
Si dice che attorno agli anni ’20 del Novecento il noto occultista Aleister Crowley abbia soggiornato per alcune notti a Villa De Vecchi, e il soprannome di “Casa Rossa” non deriverebbe dal colore della pietra con cui era costruita la casa, ma dal colore del sangue che scorreva (c’è chi parla di una fontana nel parco che zampillava sangue) durante oscuri riti di magia sessuale praticati da lui e dai suoi adepti, che nella villa avevano dato vita ad una sorta di “comune” dedita a riti occulti di magia rossa e magia nera.
E fu proprio durante uno di questi rituali orgiastici nella casa del custode che, invocando il Demonio, questi apparve e si impossessò di uno dei seguaci di Crowley: costui, in preda ad una possessione demoniaca, uccise dilaniando a mani nude tutti gli altri adepti. La scena che si presentò alla polizia giunta sul posto era tanto raccapricciante che gli agenti non riuscirono neppure a ricostruire i cadaveri. Questa persona indemoniata non fu più ritrovata e di lei non si seppe più nulla.
Si narra che all’ingresso delle cantine, nei sotterranei, ci sia su un muro la scritta “SOS”, che non sarebbe però il celebre acronimo di “aiuto”, ma una sigla dal significato più occulto, che significherebbe “Salvate le nostre anime” (“Save Our Souls”).
Si racconta ancora, inoltre, che tutti coloro che hanno abitato la villa dopo la morte del Conte l’abbiano dovuta abbandonare per via di strani rumori che non li lasciavano dormire la notte.
I misteri e i segreti di Villa De Vecchi negli anni hanno attirato, oltre a vandali e curosi, vari gruppi di studiosi interessati al paranormale che hanno rilevato numerose anomalie sia all’interno che all’esterno della villa, come orbs, improvvise variazioni di campi elettromagnetici, rumori di passi trascinati sul pavimento e anche misteriose figure biancastre materializzarsi dentro la casa, in particolare, più di un testimone ha visto la figura bianca di una donna molto giovane.











domenica 29 maggio 2016

VLADIMIRO PANIZZA DA FAGNANO OLONA - LA "ROCCIA" DEL CICLISMO

Panizza ha corso il Giro d'Italia per 18 volte, un record che probabilmente resterà imbattuto. A quarant'anni era ancora in sella, indistruttibile. Per questo si era meritato il soprannome «la Roccia», perchè sembrava fatto di acciaio, non mollava mai. Correva proteggendo i suoi capitani, prima Moser e poi Saronni, ma spesso si trovava davanti perchè, nel profondo del suo animo, sapeva di essere anche lui un capitano.
La storia di Panizza inizia nel rigido inverno del 1944, quando, sulle montagne, il partigiano Angelo Panizza, pensando al figlio che doveva nascere, decide di chiamarlo Wladimiro, in onore a Lenin. E quel figlio che vede solo per pochi anni, forse, del partigiano, aveva la tempra.
In oltre 25 stagioni il piccolo corridore varesino ha saputo regalare grandi emozioni, ma ha avuto il torto di nascere in un momento sbagliato, in un periodo, nel ciclismo degli anni Sessanta, dove i grandi comandavano e i gregari lavoravano. Eppure Miro Panizza da Fornaci di Fagnano Olona, varesino, nel 1967, anno del debutto tra i «prof» aveva mostrato le sue caratteristiche di scalatore nella tappa del Giro conclusasi alla Tre Cime di Lavaredo. Aveva vinto Gimondi, precedendo di pochi secondi Merckx e Motta.
Poiché c' erano state spinte davvero scandalose, Sergio Zavoli al «Processo alla tappa» aveva indotto Torriani ad annullare la frazione. Il solo che aveva raggiunto il traguardo con le proprie gambe, piazzandosi alle spalle dei «tre mostri» era stato proprio Panizza. Gli fu tolta la vittoria per l'annullamento della tappa a causa di spinte e traini abusivi dei quali avevano beneficiato gli altri corridori. Tra le lacrime invocava giustizia, ma non poteva andare contro i «grandi del momento». Così dovette accontentarsi degli elogi del «Processo alla tappa».
Non sarà l’ultimo dolore, quello lassù, alle Tre Cime: il ciclismo è uno sport che a volte ti vuole bene e altre ti maledice. L’anno dopo, durante un allenamento, un camion lo butta a terra e la sua ammiraglia lo investe. Il povero Miro non ci crede quando gli dicono che ha subito una lacerazione dei legamenti del perone, la frattura del malleolo e molte lesioni al bacino. Ma, oltre che buono, Panizza è anche paziente con il suo destino: “La vita a volte è dura” dice, “ma c’è sempre qualcosa di peggio. E allora ho imparato ad accettare serenamente il bene e il male.”
Così nel 1969 torna in sella, a lavorare per Gimondi. 
Wladimiro Panizza appese la bici al chiodo nel 1985, quando le candeline da spegnere erano quaranta. E’ ancora suo il record di ben sedici Giri d’Italia portati a termine su diciotto.
Scompare premutaramente, a causa di un attacco di cuore nel giugno del 2002, a soli 57 anni, poco prima di trasferirsi nella sua bucolica residenza estiva di Boarezzo.
Dal 2003 a Valmorea, in provincia di Como, è stata inaugurata una struttura d’accoglienza per bambini disabili, che porta il suo nome: La casa di Miro, realizzata dai Bindun (girovaghi in dialetto comasco), un gruppo composto da campioni sportivi del passato con il fine di realizzare opere di beneficienza. E proprio per finanziare questi progetti, ogni anno a settembre si svolge una manifestazione ciclistica amatoriale alla sua memoria, intitolata: In bici ricordando Miro.





giovedì 26 maggio 2016

VILLAGGIO ALPINO DI BOAREZZO (VA) foto contemporanee di Gualtiero Monti - foto d'archivio www.valganna.info/

Il Villaggio del TCI è un luogo ameno, immerso nel folto del bosco. La costruzione iniziale risale circa al 1920 e si è sviluppata nel tempo con l’aggiunta di vari corpi abitativi, i cui costi di costruzione e gestione erano coperti da lasciti di benefattori, soprattutto perché lo scopo era quello di ospitare gli orfani della guerra. Una lapide apposta sul montante di destra del portale d’ingresso riconduce a questo intento; l’iscrizione è stata cancellata, ma se ne può ricostruire il contenuto, seppur limitatamente ad una parte. Dove possibile, vi si legge:

LA PATRIA MADRE QUI’ ACCOGLIE
LE FANCIULLEZZE CHE SOFFRONO
PERCHE’ NATURA LE TEMPRI
AI FINI DELLA VITA IMMORTALI.

In seguito la gestione fu affidata al Touring Club Italiano, che ne ha fatto un Villaggio Alpino.
Il Villaggio nasce alla fine della Prima Guerra Mondiale, come sostentamento ai fanciulli gracili e poveri, orfani di guerra o figli di combattenti. I bambini trascorrevano al villaggio a turno uno o più mesi ciascuno. Per loro era un'occasione per stare bene, potevano giocare immersi nel verde, andare con lo slittino quando nevicava, stare con gli altri bambini. Inoltre il villaggio era in un certo senso autonomo: all'interno c'era una chiesetta e un piccolo ospedale. C'era tutto il necessario per poter ospitare i bambini anche per lunghi periodi.
Alcune righe tratte dai documenti scritti ritrovati: 'Ogni anno sui primi di luglio, la stanzioncina di Ganna, ch'è a mezza via fra Varese e Luino, assiste ad un festoso arrivo che si ripete altre due volte nella stagione, una vispa e stupita schiera di maschietti e di bimbette che, inquadrata da uno stato maggiore di volenterose persone, infila da lì a poco una ombrosa viottola che mena verso l'alto'.
Il 1922 è l’anno benedetto del Villaggio, un nuovo edificio si aggiunge agli esistenti, la villa dell’ampio portico, affettuosamente ideata e vigilata durante la costruzione della’ing. Italo Vandone, benefico asilo che come cantò il Bertacchi in un epigrafe alata come una strofa, Mario Pandini “dall l’alto dell’eroica sua morte al padre orbato inspirò svolgendo il dolore in amore”
L'organizzazione si arrichisce di nuovi impianti, dalla cabina trasformatrice dell’energia elettrica alla installazione della luce, dalle docce all’orto, dalla cinta in ferro spinato del parco alla stalla per le mucche, dalla lavanderia al cinematografo, e finalmente, voto lungamente sospirato, la cappella che vigili le giornate dei piccoli coloni, li dispensi dallo scendere ogni domenica a Boarezzo per l’adempimento dei doveri religiosi.
Il Villaggio poteva ora meritare tal nome, accoglieva in sé tutte le installazioni, tutte le provvidenze, tutte le risorse di una piccola città in miniatura.
Nel 1927 il Villaggio alpino si arrichì di due altre utilissime costruzioni, il munifico consigliere Gerolamo Serina, assunse interamente a suo carico le spese della costruzione di un secondo acquedotto, elevando per tal modo centomila litri la riserva di freschissima acqua nei mesi di magra delle sorgenti alpine.
Mentre Federico Johnson per onorare la memoria di Luigi Vittorio Bertarelli l’indimenticabile presidente del TCI, gli ha dedicato un bellissimo e utilissimo padiglione per l’assistenza sanitaria dei piccoli.
Il Villaggio alpino del TCI ha anche la sua scuola, che funziona egregiamente durante il periodo invernale. La colonia invernale ? Ma sicuro al Villaggio si passa di sorpresa in sorpresa e tutte belle.
Dal 1928 il Villaggio alpino apre le sue villette a un piccolo numero di fanciulli, scelti fra le famiglie più povere, e li ospita per tutta la durata dell’inverno a scopo di cura preventiva antitubercolare.
Inoltre era necessario che la colonia avesse anche il carattere di scuola, affinché i fanciulli chiamati a goderne i vantaggi da un punto di vista, diremmo così, materiale, non si vedessero poi costretti a perdere un anno di insegnamento, ma potessero, ritornando in città in seno alle loro famiglie, riprendere lo studio in condizioni di uguaglianza rispetto ai loro compagni.
Ed ecco tutta commissione al lavoro, per risolvere rapidamente le varie incognite del problema. Al riscaldamento fu provveduto con un impianto di stufe in tutti i locali che avrebbero dovuto funzionare nell’inverno, in quanto al quale provvidero alcuni dei nostri benemeriti, sempre pronti a rispondere ad ogni appello per un’opera di bene. Nelle spaziose cantine furono raccolte le provviste nella quantità richiesta da tre mesi di esercizio, perché nell’inverno il Villaggio è non di rado bloccato dalla neve, è l’unica via di accesso è allora la mulattiera, che richiede però una fatica non lieve per la battuta e non consente che piccoli trasporti.

Oggi il Villaggio stà dormendo... le ultime mie informazioni in possesso mi danno la chiusura intorno alla fine degli anni '80






























IL CERCHIO SACRO DI GOLASECCA (VA)

A Golasecca ci si può immergere nella preistoria, alla ricerca dei misteri di un’antica civiltà scomparsa. L’abitato si trova al centro di una vasta area archeologica da cui prende il nome la cultura di Golasecca, presente sulle sponde del Ticino e intorno ai laghi Maggiore e di Como nella prima età del Ferro, tra il IX e il IV secolo a.C. Qui una popolazione di origine celtica viveva in piccoli e grandi villaggi formati da capanne costruite con tronchi di legno, paglia e fango essiccato, dedicandosi all’allevamento del bestiame, alla tessitura, ma soprattutto al commercio di ambra, sale e stagno attraverso i passi alpini e la navigazione sul Ticino e sul Po, fungendo da tramite fra gli Etruschi stanziati nell’area tirrenica e le popolazioni celtiche del centro e nord Europa. Da Golasecca camminando per 2 km nel sentiero del Monsorino si giunge all’antica necropoli dove i “cromlech”, recinti circolari di grosse pietre, delimitano le aree sepolcrali scoperte nel 1965 insieme con le urne cinerarie, le armi, gli ornamenti personali e gli oggetti di corredo tombale che accompagnavano i defunti nel loro viaggio verso l’aldilà.
Col passare dei millenni il significato dei tumuli e dei cerchi di pietra fu obliato. Secondo le leggende medievali questi siti (fairy circles), insieme a quelli delineati in autunno dai funghi costituivano i luoghi per eccellenza dove le fate e le streghe danzavano nella notte durante i loro riti magici: luoghi da cui tenersi lontani, a rischio di incorrere in una maledizione, o perfino di essere catturati e rimanere prigionieri degli spiriti per l'eternità.
Anche secondo Plinio il Vecchio, autore romano ma di sangue celtico (nacque a Como nel 23 d.C), tutto ciò accadde prima che gli uomini usassero violenza sul popolo della fate, rendendole per sempre invisibili. Da allora gli abitatori del bosco vivrebbero ancora relegati nel regno dell’ombra, un paradiso sotterraneo dove solo allo sguardo dell’iniziato è concesso scorgere qualcosa oltre la realtà percettibile.